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  1. Jul 2019
    1. Credunt ergo beatum Iob in suis sermonibus deliquisse, minus caute intuentes, quia si beati Iob responsa redarguunt, falsam etiam de eo Domini sententiam fuisse testantur. Diabolo namque a Domino dicitur:Considerasti servum meum Iob, quod non sit ei similis super terram: vir simplex et rectus ac timens Deum, et recedens a malo(Gb1, 8)? Cui a diabolo mox respondetur:Nunquid gratis Iob colit Deum? Nonne tu vallasti eum cunctamque familiam eius? Sed mitte manum tuam, et tange eum, si non in faciem benedixerit tibi(Gb1, 10 [9-11]). Hostis itaque in beato Iob vires suas exercuit, sed tamen certamen contra Deum assumpsit. Inter Deum itaque et diabolum beatus Iob in medio materia certaminis fuit. Quisquis ergo sanctum virum inter flagella positum, dictis suis peccasse asserit, quid aliud, quam Deum, qui pro illo proposuerat, perdidisse reprehendit? Ipse quippe in se tentati causam suscipere voluit, qui eum et ante flagella praetulit, et praeferens tentari per flagella permisit.

      Vi è qui una prima applicazione del principio, espresso nel terzo capitolo dell’epistola dedicatoria, secondo il quale vi sono dei passaggi scritturali che, se intesi superficialmente, inducono il lettore all’errore. In questo passaggio, Gregorio si riferisce alle già citate risposte di Giobbe delle quali, nel paragrafo precedente, aveva sottolineato la fraintendibilità e, con essa, l'implicita necessità di andare oltre l'interpretazione letterale. I minus caute intuentes, vale a dire coloro che, interpretando le sue parole alla lettera, credono che Giobbe abbia peccato nei suoi discorsi, corrono infatti il rischio di fraintendere anche la sententia del Signore, schieratosi dalla parte di Giobbe. Dio abbraccia la causa della sua creatura (in se tentati causam suscipere voluit) e non interpretare correttamente le parole di Giobbe significa, in ultima analisi, ammettere che il diavolo ha vinto la scommessa. Da questo punto di vista, dunque, un’esegesi errata implica un’errata comprensione della posizione di Dio rispetto alla sofferenza di Giobbe.

    2. Cum igitur omnia virtutum mandata perficeret, unum ei deerat, ut etiam flagellatus agere gratias sciret. Notum erat quia servire Deo inter dona noverat: sed dignum fuerat ut districtio severitatis inquireret utrum devotus Deo et inter flagella permaneret. Poena quippe interrogat, si quietus quis veraciter amat. Quem hostis quidem ut deficeret petiit, sed ut proficeret accepit. Fieri Dominus benigne permisit quoddiabolus inique postulavit. Nam cum idcirco illum expetisset hostis ut consumeret, tentando egit ut eius merita augeret.

      Se l'elenco precedente riflette evidentemente il punto di vista di Giobbe, l' osservazione gregoriana che lo chiude (Cum igitur omnia virtutum mandata perficeret, unum ei deerat, ut etiam flagellatus agere gratias sciret) fa riferimento a una mancanza che può essere considerata solo alla luce del rapporto dell'uomo con il divino e, più precisamente, considerando quanto appena descritto da un punto di vista che deve necessariamente oltrepassare quello creaturale: quel che manca a Giobbe, scrive Gregorio, è l'agere gratias a Dio anche nelle sventure ed è l'autore stesso a suggerire al lettore, al fine di comprendere meglio il valore di tale mancanza, di considerare le due diverse accezioni della prova cui Giobbe viene sottoposto. Se, infatti, il Signore benigne permisit, il diavolo inique postulavit; è in questo senso che le sventure di Giobbe possono essere ricondotte al piano provvidenziale di Dio, in quanto funzionali all’accrescimento dei meriti della creatura che, al contrario, il diavolo tenta di distruggere.